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LA MORALE DELL’ASTENSIONE E I PENSIERI «METAFISICI» DEL ’25-26

Dopo l’anno dell’imponente ciclo delle Operette, culminato nell’immagine cosí emblematica di Colombo, uomo d’azione e poeta, e nel Cantico del gallo silvestre, pauroso e tragico messaggio di distruzione e di morte dell’uomo e del mondo, si avverte nell’esperienza leopardiana un declino delle forze fantastiche e sentimentali, un ricavo doloroso di tanti «travagli e dolori» nelle forme dell’astensione stoico-epittetica, dell’uso della «pazienza» e del non impegno (donde la centralità significativa, già ricordata, della versione del Manuale di Epitteto con le chiarificative dichiarazioni preambolari già usufruite) che, pur nelle occasioni biografiche piú ricche dei soggiorni milanesi, bolognesi, fiorentini, risolve il rapporto vita-poesia in un piú distaccato esercizio di virtú ed affetti (né molto si può concedere alla breve infatuazione amorosa, a Bologna, per la Malvezzi, capovolta rapidamente in una delusione poco sofferta e risentita), in un dichiarato disgusto per le lettere «amene», associato al senso di noia procurato al poeta dall’«usare» con gli uomini, come egli afferma congiuntamente nella lettera del 6 maggio 1825 al Giordani: «Quanto piú gli uomini mi paiono piante o marmi per la noia che io provo nell’usar con loro... Quanto al genere degli studi che io fo, come io sono mutato da quel che io fui, cosí gli studi sono mutati. Ogni cosa che tenga di affettuoso e di eloquente mi annoia, mi sa di scherzo e di fanciullaggine ridicola. Non cerco altro piú fuorché il vero, che ho già tanto odiato e detestato»[1]. Dove se la presa di coscienza di questa inclinazione coinvolge la solitudine recanatese e gli elementi «metafisici» delle Operette, essa è pur sempre caratteristica di questa piú sicura rivelazione a se stesso proprio della situazione successiva alle Operette del ’24, mentre ancora nel pieno delle relazioni di società dei soggiorni fuori di Recanati si chiarisce limpidamente la denuncia dell’assuefazione all’«assenza» e addirittura del «vizio» dell’absence come il Leopardi dice in una lettera al Vieusseux del 4 marzo 1826. «Da questa assuefazione e da questo carattere nasce naturalmente che gli uomini sono a’ miei occhi quello che sono in natura, cioè una menomissima parte dell’universo, e che i miei rapporti con loro e i loro rapporti scambievoli non m’interessano punto, e non interessandomi, non gli osservo se non superficialissimamente»[2]. Mentre nel pieno di questo periodo il Leopardi giungeva a questa tremenda definizione del suo stato, nello Zibaldone del 3 novembre 1825: «Io sono, si perdoni la metafora, un sepolcro ambulante, che porto dentro di me un uomo morto, un cuore già sensibilissimo che piú non sente ec.»[3].

Tutto ciò non è profondamente surrogato né dalla terza e piú abile ripresa della versione della Batracomiomachia né dall’Epistola al Pepoli, in cui la stessa stanca versificazione in sciolti da epistola di tipo settecentesco e la galleria di ritratti pariniani dei vani ricercatori di un superamento del tedio e dell’ozio in azioni ugualmente tediose e vane segnano chiaramente (malgrado tenui vibrazioni) la massima depressione dello slancio poetico leopardiano e la prefigurazione di uno stato senile – ma in realtà già in gran parte allora attuale – di totale dedizione al pensiero o a quel «piacere dei pensieri metafisici» che il Leopardi dichiarava, nello Zibaldone, proprio di un animo solitario e deluso della società. «E in somma si può dire che il filosofo e l’uomo riflessivo coll’abito della vita sociale non può quasi a meno di non essere un filosofo di società (o psicologo, o politico ec.), coll’abito della solitudine riesce necessariamente un metafisico. E se da prima egli era filosofo di società, da poi, contratto l’abito della solitudine, a lungo andare egli si volge insensibilmente alla metafisica e finalmente ne fa il principale oggetto dei suoi pensieri e il piú favorito e grato» (12 maggio 1825)[4]. Sicché non appare accettabile (anche se non schematicamente capovolgibile in una aridità assoluta e priva di ogni minima tensione in una personalità cosí complessa, mai interamente davvero raggelata, e invece attentamente graduabile nell’interno stesso delle sue varie fasi) la recente ricostruzione di questo periodo[5] troppo profilata – sulla base di un giudizio errato delle Operette morali come stadio del massimo distacco leopardiano dalla attrazione vitale e dalla pressione sentimentale-fantastica – come lenta ripresa della sensibilità in direzione del «risorgimento» pisano che in realtà si pronuncia piuttosto alla fine del periodo e soprattutto nel ’27, come poi vedremo.

Calano coerentemente nello Zibaldone, fra ’25 e ’26, i pensieri direttamente politici (quella «noncuranza delle cose di fuori» di cui parlava nel preambolo al Manuale di Epitteto) e viceversa – accanto ai pensieri morali sull’utilità del comportamento della pazienza e dell’astensione e ad acri riflessioni e sentenze che il Leopardi pensava già nel ’26 di poter raggruppare sotto i titoli significativi di «machiavellismo di società», di «manuale di filosofia pratica» (come avverrà piú tardi nella raccolta dei CXI Pensieri che traggono la loro origine e gran parte del loro materiale dallo Zibaldone di quel periodo piú «misantropico» e distaccato dagli affetti) – prosegue il discorso analitico-filosofico piú nudo, come già nel ’25 l’operetta Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco si presentava scheletrica e priva di ogni animazione nel prevalente e importantissimo interesse di una dimostrazione integralmente materialistica dell’origine e della fine del mondo.

Lo Zibaldone domina questi anni con alcuni pensieri che proseguono il filo della diagnosi centrale delle Operette e specie del Dialogo della Natura e di un Islandese, su di una piú acuta, minuta, conseguenziaria disposizione a ricavare tutta la verità amara che in quell’operetta si era prospettata in forme complesse e fortemente drammatiche, tese nel suo fondo e nella voce dell’Islandese.

Infatti, fra ’25 e ’27, si assiste ad un ulteriore consolidamento del consequenziario materialismo integrale dello scrittore che – con una calma speculativa implacabile, in cui per ora sembrano piú contenute, ma già vive e a volte vibranti, le spinte accese di una persuasione combattiva che da quelle affermazioni si scateneranno piú tardi – giunge a negare risolutamente ogni esistenza autonoma dello «spirito» («delirio» che conferma la «miseria dell’intelletto umano» specie nel secolo XIX in cui «risorge da tutte le parti e si ristabilisce radicatamente lo spiritualismo, forse anche piú spirituale, per dir cosí, che in addietro» e i filosofi «si congratulano di riconoscere per caratteristica di questo secolo, l’essere esso éminemment religieux, cioè spiritualista»[6]) e a postulare la «materia pensante» («la materia può pensare, la materia pensa e sente»[7]). Mentre la stessa idea di un Dio «provvidente» e personale gli appare come la macroscopica proiezione della tendenza dell’uomo a fingersi «gratuitamente» – come i fanciulli nei confronti del padre e in rapporto alla propria debolezza e miseria – «una sagacità e prudenza», un intendimento e discernimento, una perspicacia, un’esperienza superiore alla propria «in qualche persona» e quindi «l’opinione di un Dio provvidente, cioè di un ente superiore a noi di senno e intelletto, il qual disponga ogni nostro caso, e indirizzi ogni nostro affare, e nella cui provvidenza possiamo riposarci dell’esito delle cose nostre»[8].

E cosí tanto piú progredisce il pessimismo leopardiano sul male dell’esistere, sulle orribili contraddizioni della natura[9], sul capovolgimento del «tutto è bene» di Leibniz e della divulgazione del Pope, culminante nel formidabile pensiero del 19-22 aprile 1826, il quale sulla base di un ragionamento – che ribadisce, con insistita volontà di esaurienza e quindi in ogni sua piega, la verità del «tutto è male» e sviluppandola entro il cerchio della polemica antiottimistica voltairiana (ma rifiutandone il riequilibrio di «speranza» che concludeva il Désastre de Lisbonne e il rinvio della provvidenza a leggi piú alte e non legate alla misera sorte dei singoli) – si consolida nella parte finale che, con crudele lucidità, aggredisce e rivela la vera realtà dell’immagine piú tradizionalmente emblematica (nella letteratura e nell’apologia delle «meraviglie della natura» e del suo creatore) della vitalità lieta e rasserenante: quella di un giardino primaverile con tutte le sue presenze piú idilliche e distensive, rievocate e capovolte in operazioni e condizioni di ferocia inconsapevole e di patimento totale.

Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male. Non v’è altro bene che il non essere: non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non sono cose: tutte le cose sono cattive. Il tutto esistente; il complesso dei tanti mondi che esistono; l’universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica. L’esistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un’imperfezione, un’irregolarità, una mostruosità. Ma questa imperfezione è una piccolissima cosa, un vero neo, perché tutti i mondi che esistono, per quanti e quanto grandi essi sieno, non essendo però certamente infiniti né di numero né di grandezza, sono per conseguenza infinitamente piccoli a paragone di ciò che l’universo potrebbe essere se fosse infinito; e il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, per dir cosí, del non esistente, del nulla.

Questo sistema, benché urti le nostre idee, che credono che il fine non possa essere altro che il bene, sarebbe forse piú sostenibile di quello del Leibniz, del Pope ec. che tutto è bene. Non ardirei però estenderlo a dire che l’universo esistente è il peggiore degli universi possibili, sostituendo cosí all’ottimismo il pessimismo. Chi può conoscere i limiti della possibilità?

Si potrebbe esporre e sviluppare questo sistema in qualche frammento che si supponesse di un filosofo antico, indiano ec.

Cosa certa e non da burla si è che l’esistenza è un male per tutte le parti che compongono l’universo (e quindi è ben difficile il supporre ch’ella non sia un male anche per l’universo intero, e piú ancora difficile si è il comporre, come fanno i filosofi, Des malheurs de chaque être un bonheur général. Voltaire, Epitre sur le désastre de Lisbonne. Non si comprende come dal male di tutti gli individui senza eccezione, possa risultare il bene dell’universalità; come dalla riunione e dal complesso di molti mali e non d’altro, possa risultare un bene). Ciò è manifesto dal veder che tutte le cose al loro modo patiscono necessariamente, e necessariamente non godono, perché il piacere non esiste esattamente parlando. Or ciò essendo come non si dovrà dire che l’esistere è per se un male?

Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice per necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gli individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi.

Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella piú mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo piú, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti piú sensibili, piú vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall’aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell’altro ha piú foglie secche; quest’altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L’una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l’altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co’ tuoi passi: le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile, va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro (Bologna, 19 aprile 1826). Certamente queste piante vivono; alcune perché le loro infermità non sono mortali, altre perché ancora con malattie mortali, le piante, e gli animali altresí, possono durare a vivere qualche poco di tempo. Lo spettacolo di tanta copia di vita all’entrare in questo giardino ci rallegra l’anima, e di qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben piú deplorabile che un cemeterio), e se questi esseri sentono o, vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere (Bologna, 22 aprile 1826)[10].

Questo è il «giardino» di Leopardi e il lettore farà bene a non dimenticarselo piú – al di là della sua sin paradossale consequenziarietà, cosí legata a questo periodo di rivelazione spietata e analitica, di singolare «piacere» dei pensieri metafisici – come un sottofondo mai piú perduto sotto le nuove attrazioni e la ripresa della sensibilità e della fantasia che potrà evidenziare poeticamente il fascino delle «vie dorate e gli orti», delle «vaghe stelle dell’orsa», della festa popolare, ma che per ciò stesso sarà tanto piú luminoso e struggente quanto piú corrisponderà alla sua dinamica contraddizione con quella verità posseduta e spaventosa.

Il volto «mezzo tra bello e terribile» della natura ha rivelato il fondo piú intero della sua terribilità e la sua bellezza sarà tanto piú attraente e illusoria e perciò tanto piú complessamente poetica e lontana da ogni facile entusiasmo ottimistico e da ogni «idillio senza passione». Cosí come Leopardi alimenterà il nuovo cammino della ripresa del sentimento della vita associata e civile (nei suoi diversi gradi e direzioni della poetica dei canti pisano-recanatesi e poi della nuova poetica degli ultimi canti fino alla Ginestra) con la «logica» contraddizione feconda del suo bivalente amore per l’attività e per la vita piena ed intensa e con il suo elogio di quella «insensibilità» e quasi non-vita che in questo periodo di lucidissimo distacco e di analisi «metafisica» cosí chiaramente precisava a se stesso in un altro pensiero dello Zibaldone del 13 luglio 1826:

Pare affatto contraddittorio nel mio sistema sopra la felicità umana, il lodare io sí grandemente l’azione, l’attività, l’abbondanza della vita, e quindi preferire il costume e lo stato antico al moderno, e nel tempo stesso considerare come il piú felice o il meno infelice di tutti i modi di vita, quello degli uomini i piú stupidi, degli animali meno animali, ossia piú poveri di vita, l’inazione e la infingardaggine dei selvaggi; insomma esaltare sopra tutti gli stati quello di somma vita, e quello di tanta morte quanta è compatibile coll’esistenza animale. Ma in vero queste due cose si accordano molto bene insieme, procedono da uno stesso principio, e ne sono conseguenze necessarie non meno l’una che l’altra. Riconosciuta la impossibilità tanto dell’esser felice, quanto del lasciar mai di desiderarlo sopra tutto, anzi unicamente; riconosciuta la necessaria tendenza della vita dell’anima ad un fine impossibile a conseguirsi; riconosciuto che l’infelicità dei viventi, universale e necessaria, non consiste in altro né deriva da altro, che da questa tendenza, e dal non potere essa raggiungere il suo scopo; riconosciuto in ultimo che questa infelicità universale è tanto maggiore in ciascuna specie o individuo animale, quanto la detta tendenza è piú sentita; resta che il sommo possibile della felicità, ossia il minor grado possibile d’infelicità, consista nel minor possibile sentimento di detta tendenza. Le specie e gl’individui animali meno sensibili, men vivi per natura loro, hanno il minor grado possibile di tal sentimento. Gli stati di animo meno sviluppato, e quindi di minor vita dell’animo, sono i meno sensibili, e quindi i meno infelici degli stati umani. Tale è quello del primitivo o selvaggio. Ecco perché io preferisco lo stato selvaggio al civile. Ma incominciato ed arrivato fino a un certo segno lo sviluppo dell’animo è impossibile il farlo tornare indietro, impossibile tanto negl’individui che nei popoli, l’impedirne il progresso. Gl’individui e le nazioni d’Europa e di una gran parte del mondo, hanno da tempo incalcolabile l’animo sviluppato. Ridurli allo stato primitivo e selvaggio è impossibile. Intanto dallo sviluppo e dalla vita del loro animo, segue una maggior sensibilità, quindi un maggior sentimento della suddetta tendenza, quindi maggiore infelicità. Resta un solo rimedio: la distrazione. Questa consiste nella maggior somma possibile di attività, di azione, che occupi e riempia le sviluppate facoltà e la vita dell’animo. Per tal modo il sentimento della detta tendenza sarà, o interrotto o quasi oscurato, confuso, coperta e soffocata la sua voce, ecclissato. Il rimedio è ben lungi dall’equivalere allo stato primitivo, ma i suoi effetti sono il meglio che resti, lo stato che esso produce è il miglior possibile, da che l’uomo è incivilito. – Questo delle nazioni. Degl’individui similmente. Per esempio il piú felice italiano è quello che per natura e per abito è piú stupido, meno sensibile, di animo piú morto. Ma un italiano che o per natura o per abito abbia l’animo vivo non può in modo alcuno acquistare o ricuperare la insensibilità. Per tanto io lo consiglio di occupare quanto può piú la sua sensibilità. – Da questo discorso segue che il mio sistema, invece di esser contrario all’attività, allo spirito di energia che ora domina una gran parte di Europa, agli sforzi diretti a far progredire la civilizzazione in modo da render le nazioni e gli uomini sempre piú attivi e piú occupati, gli è anzi direttamente e fondamentalmente favorevole (quanto al principio, dico, di attività e quanto alla civilizzazione considerata come aumentatrice di occupazione, di movimento, di vita reale, di azione, e somministratrice dei mezzi analoghi), non ostante e nel tempo stesso che esso sistema considera lo stato selvaggio, l’animo il meno sviluppato, il meno sensibile, il meno attivo, come la miglior condizione possibile per la felicità umana[11].


1 Tutte le op. cit., I, p. 1198.

2 Tutte le op. cit., I, pp. 1242-1243.

3 Zibaldone (Tutte le op. cit., II, p. 1086).

4 Zibaldone (Tutte le op. cit., II, p. 1081).

5 È la tesi di E. Bigi, Dalle «Operette morali» ai «grandi idilli» in La genesi del «Canto notturno» e altri studi sul Leopardi, Palermo, Manfredi, 1967, comunque ben meritoria per aver offerto un primo schema di ricostruzione di questo periodo.

6 Zibaldone, 26 settembre 1826 (Tutte le op. cit., II, p. 1111).

7 Zibaldone, 9 marzo 1827 (Tutte le op. cit., II, p. 1132).

8 Zibaldone, 9 dicembre 1826 (Tutte le op. cit., II, p. 1121).

9 Si vedano in proposito almeno i pensieri del 5-6 aprile, del 9 aprile, del 3 maggio 1825, dell’11 marzo 1826 (Zibaldone, in Tutte le op. cit., II, pp. 1077-1078,1079, 1080-1081, 1095 e 1095-1096) e poi quello del 18 febbraio (p. 1130) e quello del 21 marzo 1827 (p. 1135) che ancor piú direttamente capovolge le posizioni giovanili leopardiane circa il «magisterio» della natura e del suo creatore nell’affermazione che nell’universo c’è «un ordine», ma un ordine malvagio sí che «ciascuno di noi... avria saputo far meglio (l’universo) avendo la materia, l’onnipotenza in mano», e il poeta «ammira» piú degli altri «l’ordine dell’universo», «ma per la sua pravità e deformità... estreme». Cosí a poco a poco si era passati dall’ordine benefico della natura ai suoi «inconvenienti» parziali, e poi alle sue «contraddizioni terribili» e al suo disordine, per giungere infine a ricostituirne l’ordine, ma tutto fondato sul male e (come dirà in un pensiero decisivo del ’29 a suo luogo da noi citato) peggiore del disordine.

10 Zibaldone (Tutte le op. cit., II, pp. 1097-1096).

11 Zibaldone (Tutte le op. cit., II, pp. 1102-1103).